La Sonata
op. 101 di Beethoven:
un "inno
alla gioia" per pianoforte
© Fabio
Grasso
Nella
produzione beethoveniana l'avvento dei brani con
numero d'opera a tre cifre sembra quasi assumere una valenza simbolica, in
quanto rappresentativo di una svolta verso una nuova e quanto mai straordinaria
fase creativa.
La Sonata
per pianoforte op. 101 incarna alla perfezione questo momento, e non solo in
riferimento al corpus sonatistico.
Fra le
molteplici manipolazioni che nel corso della sua vita Beethoven
opera sulla forma-sonata standard rivestono una particolare importanza i casi in
cui la struttura viene per così dire stilizzata, tratteggiata cioè nelle sue
linee essenziali, quasi scarnificate, in contesti che, accantonata la consueta assertività maestosa e razionale, drammatica o rassicurante
che sia, prediligono toni ambigui, meditativi o interrogativi.
Ne è un
esempio eclatante il celeberrimo Adagio d'apertura dell'op. 27 n. 2, in cui il
tanto rinomato Mondschein, lungi dall'essere il
chiarore idilliaco suggerito ingannevolmente da un titolo non originale, postumo
e fin troppo fortunato, è tutt'al più un mesto
bagliore che rende appena percepibili le vestigia spettrali, le rovine di una
forma-sonata mai così scarna e languente, inghiottita dall'oscurità della più
tragica notte dell'esistenza beethoveniana.
L'essenzializzazione della forma proposta dal movimento
iniziale dell'op. 101 è il primo passo verso un esito antitetico.
Il primo
tema consta di due semifrasi da due battute ciascuna, che si relazionano fra
loro come una domanda incerta e una risposta altrettanto dubitativa. Alla
reiterazione variata della domanda segue subito il ponte modulante, che nel
corso di nove battute punta placidamente verso Mi maggiore, Dominante della tonalità
d'impianto, salvo chiudersi ripiegando timidamente sul sesto grado. A b. 16 il secondo tema esordisce con la medesima
insicurezza, ma pare subito dopo cercare gradualmente fiducia con la triplice
figurazione ascendente sull'armonia di quarta e sesta. La tonica di Mi maggiore
in stato fondamentale viene affermata con delicatezza solo alla fine di questo
percorso, e poi confermata da una sommessa coda dell'Esposizione.
Questo
inizio così discreto e sfumato illustra chiaramente lo spirito dell'approccio beethoveniano alla stesura di questo capolavoro. Spesso le
Sonate per pianoforte sono laboratori in cui si sperimentano soluzioni
sviluppate poi in altri ambiti, oltre che naturalmente in altre Sonate
successive. Questo è quanto mai vero per l'op. 101, il cui primo tempo vuole
proprio dare l'idea di una nuova strada che ancora si sta ricercando e che viene
trovata passo dopo passo, in corso d'opera.
Con la
stessa esitante sobrietà lo Sviluppo (b. 35-57) procede
basandosi esclusivamente sulla prima semifrase del primo tema, che dopo vari
excursus modulanti viene infine riesposto sul quinto grado di La minore (b. 55-57), preludio all'immediata ripetizione in maggiore
che a b. 58 dà inizio alla Ripresa. Il diverso e meno
incerto carattere di quest'ultima emerge già dalla
soppressione della semifrase di risposta e dal passaggio diretto al ponte
modulante trasposto.
Il secondo
tema della ripresa, in La maggiore come da prassi, varia il profilo della
triplice figurazione ascendente, comprimendone l'ampiezza. Se da un lato si sa
che questo cambiamento è tecnicamente imposto dalla limitata estensione della
tastiera, non si può dall'altro fare a meno di notare che anche qui, come già
in molte Sonate giovanili (ancor più condizionate dalla tastiera corta) il
limite strumentale diventa anche stimolo, ammesso che ce ne sia bisogno, per modifiche
compositive e concettuali. Qui la compressione
dell'arpeggio sembra indicare che a questo punto della riflessione la via da percorrere
appare ormai delineata, e dunque lo slancio ascensionale del pensiero viene
calmierato, come se ormai bastasse uno sforzo meno intenso per raggiungere ugualmente
la meta. Per questo può apparire suggestivo differenziare dinamicamente con un
graduale diminuendo questa salita, rispetto al crescendo che senz'altro
richiede il passo corrispondente dell'Esposizione.
Le sonorità
della coda si dissolvono quietamente man mano che essa procede verso l'etereo
finale, non prima però di aver conosciuto l'increspatura del potente afflato
dei tre accordi ribattuti (settima diminuita su pedale di Tonica), picco sonoro
del movimento ed evidente premonizione del crescendo accordale che nell'op. 110
prelude all'inizio della seconda Fuga.
All'incedere
ondivago del primo movimento fa da contraltare il
passo deciso della Marcia che funge da Scherzo, concatenato senza pause.
Non è
certo la prima volta che Beethoven unisce due
movimenti, e non è una novità neppure la richiesta di eseguire l'intera sonata
senza interruzioni - già l'op. 27 n. 1 ha tutti i quattro movimenti congiunti
senza soluzione di continuità. L'anticipo in seconda posizione dello Scherzo (o
del movimento facente funzioni) di una Sonata a 4 tempi, alternativa al canonico
piazzamento al terzo posto, ha due precedenti nella Sonata op. 26 e nella
stessa op. 27 n. 1; il medesimo spostamento sarà poi attuato nelle Sonate op. 106
e 110 (oltre che naturalmente nella Nona Sinfonia e in altri brani). Questo
cambio di posizione è motivato dal fatto che l'ultimo movimento necessita di
essere direttamente connesso all'Adagio, di cui raccoglie e trasfigura il
profondo messaggio. Così accade per tutti i casi menzionati; ma la grande
innovazione dell'op. 101 consiste nella presenza di un elemento di transizione
fra Adagio e Finale, una reminiscenza del tutto inattesa dell'incipit del primo
movimento.
La portata
epocale di questa trovata è lampante: per la prima volta in una macroforma
basata su architetture sonatistiche viene citato esplicitamente
e integralmente il tema di un movimento precedente, come palese memoria
riemergente, non come fuggevole allusione motivica
volutamente dissimulata (pratica questa ampiamente sperimentata in passato).
L'Adagio
contrappone alla brillantezza della Marcia una compostezza meditativa che
ricorda alcune pagine degli ultimi Quartetti; è del resto quartettistica
la frase centrale, che sembra muovere dal suono di un violoncello poi ripreso
ed amplificato dagli altri archi, in un passaggio che spiega molto bene
l'indicazione espressiva Sehnsuchtvoll: il frammento motivico principale viene lanciato verso l'alto, per poi
ricadere nella progressione discendente di settime diminuite che prelude alla libera
cadenza, così come l'animo pervaso dalla Sehnsucht,
come ben mostreranno poeti e compositori romantici, anela a traguardi
sovrumani, per poi struggersi nella consapevolezza della loro irraggiungibilità
terrena.
A
descrivere questa visionaria prefigurazione di un sentimento tipicamente
romantico bastano le poche righe di un movimento così insolitamente breve (rispetto
agli Adagi delle ultime opere) da poter essere considerato quasi come
un'introduzione al Finale, nello stile della Waldstein.
Dunque, prima di attaccare il movimento conclusivo, Beethoven
si compiace di evocare il ricordo delle tenere e ormai superate incertezze del
primo "pezzo", come lui stesso lo definisce, per rendere ancora più
festosa l'imminente esplosione di giubilo. Analogamente, all'inizio del Finale
della Nona Sinfonia, l'orchestra si produce in un dialogo metateatrale,
ricordando ad uno ad uno i motivi dei movimenti pregressi, per poi decidere che
è giunta l'ora di cambiare rotta e iniziare l'avventura sinfonico-vocale
sulla Freudenmelodie.
È proprio
il concetto della Gioia schilleriana, così caro a Beethoven fin dalla giovinezza, il trait d'union fra l'op. 101
e la Nona Sinfonia op. 125, in un certo senso i punti di partenza e arrivo di
un percorso durante il quale l'idea della gioia viene declinata in modi
diversi, quasi sempre accomunati dalla presenza di una o più fughe. Certo la
valenza eminentemente catartica della fuga, emblema del processo redentivo dalle tenebre alla luce, può essere espressa ora
con accenti mistico-ascetici, come nelle op. 106 e 110, oppure in termini di
riflessione più speculativa sul rapporto fra trascendenza e immanenza, come
nell'Arietta dell'op. 111 o nelle costruzioni contrappuntistiche
delle Variazioni Diabelli (sarà questo un aspetto particolarmente
rilevante nei Quartetti posteriori alla Nona). La gioia che traluce dalle
pagine dell'op. 101 appare come qualcosa di più immediato, di più semplicemente
umano, e per questo più affine alla Freude dell'ode schilleriana da cui è tratto il testo della Nona, una gioia
il cui incanto (Zauber) vorrebbe essere l'oggetto di
una comunicazione piana e universale, che narra di fratellanza e pace, con una
carica filantropica tanto grandiosa quanto purtroppo mal riposta.
La
forma-sonata che si era velata sotto agli interrogativi del primo movimento
prorompe nel quarto tempo in tutta la sua magnificenza, con due nuclei tematici
saldamenti correlati: il primo tema fa anche da seconda idea per il secondo
nucleo tematico, e soprattutto costituisce anche il soggetto della fuga
completa che funge da Sviluppo. Il fatto che le dimensioni e l'impegno di
questa fuga siano minori rispetto a quelle delle op. 106 e 110 è un'ovvia
conseguenza della sua collocazione e della sua concezione compositiva,
ma anche, in relazione a quanto detto sopra, della sua esigenza di maggiore
immediatezza comunicativa. La sua inclusione in una forma-sonata si sposa
perfettamente con l'uso del contrappunto che Beethoven
fa in quest'opera (il Trio della Marcia è un canone,
e la summenzionata frase quartettistica dell'Adagio
si basa su un procedimento imitativo). L'apice delle sue vibranti articolazioni
viene raggiunto con il gigantesco arpeggio conclusivo di Dominante, culmine
sonoro dell'intera Sonata, una delle più impressionanti testimonianze della
visionarietà pianistica beethoveniana - si può ben
supporre che nessun pianoforte dell'epoca potesse rendere adeguatamente la
potenza inaudita di quel passaggio, come possono invece fare gli strumenti dei
nostri giorni.
Concludiamo
con una considerazione sulla Coda del Finale, il cui inizio riecheggia
l'annuncio della fuga, ma dà invece avvio a una rivisitazione della seconda
idea del primo nucleo tematico, omessa in sede di Ripresa, e dunque, come
spesso accade ai materiali non utilizzati, ripescata nella coda. Molto più
interessante del dato tecnico-compositivo in sé è
però il senso che Beethoven intende dare a questa
operazione. Ancora una volta, come nella transizione fra Adagio e Finale, si
tratta di una reminiscenza di un passo già udito, il cui carattere è ancora più
marcatamente modificato in direzione dell'ammorbidimento, dell'allentamento
della tensione, quasi ad evocare il compiacimento di una pacificazione
interiore che confina con la riconoscenza per il percorso redentivo
appena compiuto - non dimentichiamo che il "canto di ringraziamento di
un'anima risanata" del Quartetto op. 132 sarà la sublimazione definitiva
di questo sentire.
Che un
tale pensiero e che i suoi sublimi effetti si siano concretati transitando per
l'animo di un uomo sottoposto alla più atroce condanna che la sorte potesse
infliggergli dovrebbe essere per tutti noi, a nostra volta, motivo di infinita
gratitudine nei suoi confronti.
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